mercoledì 7 novembre 2012

“Tributo pop al Signor G. a dieci anni dalla scomparsa” di Andrea Scanzi


mercoledi 7 novembre 2012 - Pensieri e Parole da condividere

“E allora è bello/quando tace il water/quando ride un figlio/quando parla Gaber”. Lo cantava qualche decennio fa Enzo Jannacci, che del Signor G è stato amico, compagno di viaggio – fin dagli inizi – ed estimatore indefesso. La canzone, portata anche a Sanremo, si intitola Se me lo dicevi prima. Jannacci usava “parla”, e non “canta”, assai scientemente.

Dal 1970, insieme al coautore e pittore Sandro Luporini, Gaber non si limitava più a cantare. Parlava, affabulava. Provocava e scudisciava. Trent’anni di Teatro Canzone, genere che in Italia prima di loro non c’era. Lontani dalla tivù, dai giornali, dalle radio e da una Rete di là da venire. Clandestini per scelta, carbonari per vocazione. Cantori di dilemmi, strade catartiche e comunisti utopici, che quando parlavano di Maria (cioè dell’amore) chiedevano scusa. Consci che, quantomeno in apparenza, fossero altri gli argomenti da trattare. Giorgio Gaber è morto il primo gennaio 2003, a neanche 64 anni. Nella casa a Montemagno, Versilia. L’amato buen retiro. Tra poco se ne celebrerà il decennale della scomparsa. Usciranno libri (uno, per Mondadori, firmato proprio da Luporini). 
Si accavalleranno ricorrenze, per omaggiare un gigante della cultura che tutti dicono di conoscere ma che sfugge tuttora all’interpretazione trasversale. Refrattario alla santificazione, incapace di appartenere politicamente, orgoglioso di avere prima inseguito e poi eternato una carriera – e una discografia – non immediatamente avvicinabile. Fabrizio De André, dopo la morte, è diventato (anche troppo) patrimonio di tutti; il Signor G, no.

I ventenni lo conoscono quasi nulla, i trentenni poco. E gli over quaranta, quando riempiva i teatri duecento volte l’anno, non di rado erano distratti. Smarriti tra pensosi alambicchi della ragione e imprecisati palpiti del cuore. “…Io ci sono” è una buona maniera di avvicinarsi al repertorio sconfinato di Gaber-Luporini. Un triplo cd curato dalla Fondazione Gaber, in vendita da martedì prossimo, con cinquanta cover di altrettanti artisti, passati dal 2003 a oggi da Viareggio per l’appuntamento estivo del Festival Gaber. Saranno messe in commercio anche una versione digitale e una deluxe numerata, con l’aggiunta di tre canzoni, tre foto, un libro e due dvd. I puristi – e i gaberiani lo sono: hanno avuto un maestro inflessibile – storceranno il naso di fronte ad alcune presenze aliene (Gigi D’Alessio, Emma, Marco Mengoni, Laura Pausini, Noemi).

Resterà eterno il dibattito se, per allargare la conoscenza di un artista, si debba affidare il repertorio a interpreti nazionalpopolari (ma distanti) o di nicchia (ma attigui). Il dubbio è legittimo ma qui marginale. “…Io ci sono” è cofanetto monumentale e sincero. Gli artisti hanno partecipato gratis, come da prassi del Festival Gaber. Di apici artistici ce ne sono: I reduci di Eugenio Finardi, Se io sapessi di Syria, La festa di Giulio Casale, L’illogica allegria di Ivano Fossati, Buttare lì qualcosa di Cristiano De André, Il conformista di Samuele Bersani. Qualcuno, insoddisfatto per la resa sul palco di Viareggio, ha chiesto di reincidere la sua versione (Gianna Nannini, Luciano Ligabue). Altri ci hanno messo l’impegno, smarrendo in buona fede la resa artistica. Il triplo cd contiene anche l’esibizione di Patti Smith, che ha cantato quattro mesi fa in inglese Io come persona (dal cui testo proviene il titolo della raccolta): basta quel brano per giustificare l’acquisto. E non c’è solo quello. La carrellata è sconfinata: da Lucio Dalla ad Adriano Celentano, da Franco Battiato (che curò con Giusto Pio gli arrangiamenti dello spettacolo Polli di allevamento) alla Pfm, da Paola Turci (splendida la sua C’è un’aria) a Jovanotti (dignitosa la sua Si può).

Giorgio Gaber abbandonò la tivù all’apice del successo. Era il 1970. Da allora ha vissuto dentro i teatri. Presenza scenica travolgente, approccio iconoclasta. Il gusto di scorticare le coscienze. La capacità di indurre – con facilità sconcertante – al riso. L’utopia mai smarrita di andare pasolinianamente “oltre”. L’iconografia televisiva ha cercato di cristallizzarlo nella strofa: “La libertà non è star sopra un albero/Libertà è partecipazione”. Uno slogan andato ben al di là delle intenzioni di Gaber e Luporini. Parte della critica tentò di inglobarli nella schiera degli intellettuali inquieti ma (tutto sommato) regolarmente schierati. Politicamente etichettabili. Non è mai stato così.

Gaber smise di votare nel ’74, molto prima di rompere quattro anni dopo con i “compagni e femministaioli militanti”. Il suo obiettivo artistico era buttare lì qualcosa e andare via. Indurre al cortocircuito gli spettatori, peraltro cambiati nei decenni: nei Settanta (gli “anni affollati di idioti, di idiomi, di pazzi”) erano critici ma ideologicamente vicini, nei Novanta trasversali (c’era tanta gente di destra a teatro) ma misteriosamente uniti da una sorta di catarsi collettiva. Gaber era uomo schivo, oggi si direbbe sobrio, refrattario al complimento. Quando riceveva gli spettatori in camerino, scappava dall’incensazione chiedendo all’interlocutore cosa non gli fosse piaciuto di quanto aveva appena visto e sentito. I testi – delle canzoni, dei monologhi – risultano attualissimi. Chirurgicamente profetici. Perle su perle. E nessuna interpretazione, nemmeno la migliore, potrà mai avvicinarsi a quelle originali. Il Signor G era naso enorme, talento debordante: cartina al tornasole mai ruffiana né accondiscendente.

A chi gli chiedeva – sempre troppo – come potesse restare con Ombretta Colli, divenuta nel frattempo pasionaria del centrodestra, rispondeva con sintesi navigata: “Mia moglie è convinta che Berlusconi possa risolvere i problemi di questo paese, io no”. La sinistra suoleva scomunicarlo, peraltro con le stesse testate e firme che tromboneggiano ancor oggi contro i non allineati. Lo hanno definito disfattista, populista, qualunquista. Persino menestrello dei dittatori (toh: da L’Unità). Ha urlato apocalissi (Io se fossi Dio è l’invettiva più dura della musica italiana). Sempre convinto che il cancro, inteso come corruzione ineludibile del genere umano, fosse l’unica cosa autenticamente democratica dell’esistenza. Non ha però mai smesso – mai – di essere coscienza critica. Gabbiano ipotetico. Fratello maggiore, mai facile e brutalmente sincero, di cani sciolti. Ieri aggrappati a ogni suo anelito. Oggi persi chissà dove.

Il Fatto Quotidiano, 7 novembre 2012

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