martedì 30 aprile 2013

Etiopia - Acqua, bene indispensabile


martedì 30 aprile 2013 - La rivelazione Amhara 

ll semplice gesto di aprire un rubinetto e avere acqua in abbondanza, ci rende dei privilegiati nei confronti di chi è destinato a soffrire e a lottare per guadagnarsi quel bene, difficile da reperire, da raggiungere e conquistare, ma prezioso e indispensabile per sopravvivere.

































lunedì 22 aprile 2013

“Prima di un lungo silenzio” di Valter Niselli


lunedi 22 aprile 2013 - Pensieri e parole da condividere

Idee di sinistra hanno accompagnato la mia modesta, ma tormentata vita politica e di militanza, E se, alle ultime elezioni, non ho dato il voto al movimento M5S, è perchè è prevalsa la fedeltà a quella sinistra che mi ha sempre fatto soffrire nel suo comportamento. 
Continuerò a credere in certi principi, ma con questo Pd non voglio spartire più niente. 
Questo Pd lo lascio volentieri a chi se lo prende: un Franceschini, un Letta, un Renzi, che lo trasformerà definitivamente in quello che è già, forse senza saperlo, un partito più o meno presentabile. 
Anch'io avrei voluto avere la tessera, come già detto da molti altri, per poterla stracciare.
La scelta di Rodotà era lì che aspettava solo di essere colta per poi procedere ad un governo presidenziale nuovo e riformatore, ma che il Pd dialogasse con Cinquestelle sembrava una resa. Precedentemente Pd + Pdl era un inciucio e così è naufragato Marini. Prodi è stato ucciso invece per mano del Pd, che ha fatto harakiri al suo interno.
  
Il problema vero è che non si può più votare un partito che ha tradito l’unica indicazione chiara delle ultime elezioni: due terzi degli italiani non vogliono più saperne di Berlusconi e di tutto quello che rappresenta.

Invece i rottamatori e i rinnovatori hanno supplicato per il Quirinale il secondo mandato di un ottantottenne e magari riporteranno a Palazzo Chigi, D’Amato, per farci sognare il "nuovo che avanza".

Resterò di sinistra, spero non da solo, ma con i Vendola, con gli Emiliano, con i Civati, con le Serracchiani, con le Boldrini, con le Puppato, se non altro per sentirmi ancora pronto per il fronte, se non in prima, almeno in seconda linea.

sabato 20 aprile 2013

“C’era una volta il Pd” di Mario Calabresi


sabato 20 aprile 2013 - Pensieri e parole da condividere

C’era una volta un partito che appariva come il più attrezzato per affrontare l’antipolitica, che era rimasto l’unico organizzato sul territorio e che si poteva permettere il lusso di lasciare in panchina un leader giovane che pescava consensi trasversali. Quel tempo era soltanto tre mesi fa. 

Ora c’è un partito senza direzione, senza guida e diviso in correnti che si fanno una guerra spietata arrivando a usare le schede per l’elezione del Presidente della Repubblica come uno stratagemma per contarsi e controllarsi. Ogni corrente ha un modo diverso di scrivere il nome del candidato: solo il cognome, anche il nome per intero o con l’iniziale puntata, messa prima o dopo. 

Questo partito non è più in grado di decidere quali sono gli amici con cui allearsi e quali i nemici a cui dare battaglia e allora si è cullato nell’illusione di un’autosufficienza impossibile. Questo partito in sole 24 ore ha bruciato due linee politiche, il padre ispiratore e il segretario, lo ha fatto perché ha smarrito ogni solidarietà interna e perfino l’istinto di sopravvivenza, cancellato dalle paure, dagli egoismi e dalla mancanza di visione. 
Pierluigi Bersani ha annunciato ieri sera le sue dimissioni, ma lo ha fatto quando ormai il disastro della sua indecisione aveva già prodotto i massimi risultati possibili: il primo partito italiano non è riuscito ad andare al governo e nemmeno a indicare il Presidente della Repubblica, dopo aver rinunciato a mettere uomini suoi alla guida di Camera e Senato. Questo è successo perché la legislatura è cominciata senza una visione generale delle cose, in cui ogni passaggio è una tessera del mosaico. Prima di tutto si doveva decidere una strategia per eleggere il successore di Giorgio Napolitano, non era tanto importante il nome ma il metodo e soprattutto con quali compagni di strada. Da questa scelta era chiaro che sarebbe disceso tutto il resto, le presidenze delle Camere, le alleanze di governo e il futuro della legislatura.  

Invece ogni mossa è apparsa non coordinata con le altre, tanto che si sono annullate a vicenda. Se la tua preoccupazione è parlare a Grillo e recuperare gli elettori conquistati dall’antipolitica allora Grasso e Boldrini hanno un senso, ma allora non puoi presentare una rosa a Berlusconi per eleggere il nuovo capo dello Stato con lui. Perché se avverti l’urgenza di dare segnali di novità e cambiamento, tanto da aver eletto capogruppo alla Camera un trentenne alla prima esperienza parlamentare, poi non candidi l’ottantenne Franco Marini, segretario del Ppi in un’altra era politica.  

Se invece pensi che la pacificazione italiana passi dalla fine della guerra con il Cavaliere, allora hai il coraggio di incontrarlo alla luce del sole per definire i termini di una collaborazione. Ma perché tutto ciò accadesse bisognava aver prima capito che forma ha preso oggi la società italiana, quali sono le pulsioni che la agitano e dove stanno andando interi settori di elettorato. Operazione non certo semplice e che mette tutti a dura prova, ma senza la quale si procede a tentoni. 

Ieri mattina Mario Monti ha accusato Bersani di aver anteposto l’interesse del partito, scegliendo Prodi per provare a ricompattare il Pd, all’interesse generale, che sarebbe stato invece quello di pacificare la politica italiana. Questa tesi è in parte vera, ma non basta più a spiegare la situazione nella quale ci troviamo: nello schema classico la guerra era fra destra e sinistra e dall’intesa tra questi due campi passava la pace. Ma oggi l’Italia è tripolare e la pacificazione non è solo interna agli schieramenti ma anche e soprattutto tra politica e antipolitica. 

Dopo aver provato a eleggere il Presidente della Repubblica insieme a Berlusconi, il Pd si è reso conto che la guerra di cui ha più paura è quella con Grillo e con quella parte ampia della sua base che gli sta voltando le spalle, conquistata dalle parole d’ordine della rete e della lotta alla casta. E’ una battaglia che sente di non poter vincere o di cui ha troppa paura, perché avviene dentro casa, nella propria metà del campo, perché sfascia appartenenze, amicizie e fedeltà antiche. Per questo ieri hanno preferito tornare alle vecchia – e rassicurante – battaglia con Berlusconi, pensando che perlomeno si sarebbe svolta su un terreno conosciuto e che avrebbe ricompattato sia i parlamentari sia l’elettorato. 

Non è successo. Perché mentre Bersani temporeggiava la Storia correva avanti strappandogli il partito e approfittando delle sue indecisioni, delle giravolte e dei silenzi. Il tempismo spesso è tutto, saper spiegare le proprie scelte con chiarezza è il resto: Prodi come scelta iniziale poteva essere vincente, mentre ora ogni nome appare vecchio e la mancanza di una strategia comprensibile ha avvelenato ogni passaggio. Ora il Pd è lacerato da spinte che tirano in direzioni opposte e sembrano inconciliabili tra loro, ma soprattutto ha perso lucidità di analisi.  

Una parte dei suoi deputati è angosciato dalle pressioni della base e degli intellettuali storicamente di area e vive con il telefono in mano compulsando con ansia l’ultimo messaggio su twitter o su facebook. Perdendo però di vista il fatto che tre quarti degli elettori non hanno votato per Grillo e magari preferirebbero partire dai problemi più urgenti, che sempre più spesso sono legati al lavoro e a un’esistenza decente, piuttosto che dalla riduzione del numero dei parlamentari. 

L’altra parte invece parte dalla constatazione che ci sono più italiani nel centro e nella destra che nelle 5 Stelle e che a questi bisogna guardare per ricostruire il tessuto sociale lacerato del Paese, sono questi i deputati che spingevano per Marini e ora guardano a Cancellieri, Grasso o a una soluzione istituzionale e non partigiana. Il loro problema è che non sentono quanto forte è la stanchezza diffusa tra gli italiani per un certo modo di fare politica e così non si preoccupano di spiegare i passaggi con la dovuta trasparenza e efficacia. 

Berlusconi silenziosamente gongola, Grillo invece lo fa rumorosamente e con il nome di Rodotà ha lanciato la sua opa sugli elettori del Pd. Probabilmente questa mattina le persone che sorridono sotto i baffi per le disgrazie del Pd e di Bersani sono maggioranza nel Paese, ma se alzassero gli occhi vedrebbero un cumulo diffuso di macerie da cui è difficile immaginare come ricostruire. Se non passa di moda in fretta il gusto di sfasciare e non ci liberiamo dall’idea che sia necessario avere sempre un nemico da eliminare, o a cui dare la colpa, rassegniamoci a uno spettacolare declino.    

La Stampa, 20 aprile 2013

venerdì 19 aprile 2013

Etiopia - Il prossimo viaggio


venerdi 19 aprile 2013 - Ci sono posti...

Mancano quattro dì per toccare il suolo di Addis Abeba e confesso che questo viaggio ci sta inculcando quell’apprensione mai provata sinora nella nostra piccola esperienza di avventure leggermente a rischio.
Sarà la malattia da carta d’identità, saranno le poche e contrastanti informazioni raccolte da chi ci ha preceduti, ma il fascino confermato di questo paese, che non ha confronti e che ci vede entusiasti alla partenza, è un po’ soffocato dalle poche certezze con cui possiamo tranquillizzare i nostri cari e quegli amici esperti in viaggi organizzati che non lasciano niente al caso.

La nostra Africa, come cioè da noi concepita, presenta molti interrogativi sul futuro prossimo da affrontare. Tutto è demandato a quando ci troveremo nella situazione che il luogo ci sottoporrà. L’unica certezza è il volo, l’arrivo a Addis e la data del ritorno. Sarà il resto, come un grande puzzle da comporre, il vero fascino del viaggio. I mezzi di trasporto: bike e autobus; il mangiare: assolutamente indigeno; il dormire: il nostro sacco lenzuolo su letti scovati all’ultimo minuto; 1.200 km da percorrere riempiendo occhi, polmoni, cuore e memoria di una terra la più ricca di storia di tutta l’Africa, conoscendo “Lucy”, “La regina di Saba”, “Taytù Betul”, o gettando lo sguardo sugli abissi abissini, banchettando con la fantasia nei castelli di Gondar oppure rimirando le stelle sotto la stele di Axum. 

Lucy e i suoi 3,5 milioni di anni

Salomone e la regina di Saba - Piero della Francesca - 1465

Taytù Betul - 1849-1918

Appuntamento fra una ventina di giorni per un resoconto, speriamo interessante!

“Un disastro che viene da lontano” di Mario Calabresi


venerdì 19 aprile 2013 - Pensieri e parole da condividere

Il disastro a cui abbiamo assistito ieri, quello del partito di maggioranza in Parlamento che propone un suo candidato alla presidenza della Repubblica trova il voto degli avversari ma non riesce a portare i suoi, è la logica conseguenza di ciò che è avvenuto negli ultimi cinque mesi.  

È figlio della mancanza di coraggio e di idee forti, chiare e comunicate in modo convincente. Per questo il Pd non ha vinto le elezioni, per questo non si è ancora riusciti a formare un governo, per questo ha una base divisa, arrabbiata, incredula o sgomenta. Perché bisogna saper dare un colore e un sapore alle cose se si vuole che gli italiani le capiscano e le facciano proprie. 

Può darsi che questa sera avremo un nuovo capo dello Stato, figlio di una qualche alleanza o forse di un sano ripensamento dell’ultima ora, ma purtroppo non nato da un progetto organico e credibile su cui poggiarsi e da cui partire. 

L’unica scommessa fatta da Bersani nei 53 giorni che ci separano ormai dal voto è stata quella di prendere tempo, di rinviare, nella speranza che il passare delle settimane potesse miracolosamente sciogliere i nodi irrisolti. 

Già in campagna elettorale non era stato capace di dare un messaggio riconoscibile, un’indicazione di rotta per il Paese e gli italiani, una ricetta di speranza e di cambiamento comprensibile a tutti. Eppure l’uomo era dotato di buon senso, di una visione pragmatica ed efficiente e di una buona dose di ironia. Ma una sorta di paralisi e l’errata convinzione che bastasse restare fermi - distinguendosi dagli altri per sobrietà e per la serietà di non fare promesse impossibili - per arrivare naturalmente a Palazzo Chigi avevano prodotto un risultato monco e deludente. 

Non averne preso atto subito, aver ripetuto come un mantra che al Pd «spetta» l’azione, o la proposta o la guida, ma senza avere poi la forza di guidare i processi (a dire il vero nemmeno di metterli in moto) ha distrutto una leadership e la tenuta di un partito e del suo mondo di riferimento. 

Se non hai i numeri devi decidere con chi ti vuoi accompagnare per averli, ma il compagno di viaggio deve essere d’accordo e il percorso deve essere chiaro. Si è corteggiato Grillo e si sono inventati due presidenti delle Camere non ortodossi e non di partito per compiacere lui e tutta quella parte di opinione pubblica che in modo ossessivo riconosce valore soltanto a ciò che è nuovo e diverso. Ma ciò non è servito a costruire nessun progetto perché il Movimento 5 Stelle non ne voleva sapere di assumersi la sua parte di responsabilità. Prendere atto di questo portava a un bivio obbligato: dialogare con Berlusconi o rivendicare il diritto ad eleggersi un Presidente a maggioranza semplice per poi tornare a votare con un volto e un programma nuovi, variando insomma l’offerta politica. 

Nessuna delle due strade è stata scelta, si è rimasti nel limbo continuando a vagheggiare di una terza via che permettesse il crearsi di convergenze magiche sia per eleggere il successore di Napolitano sia per dare il via a un governo di minoranza. 

Tutto questo fino a un paio di giorni fa, quando – proprio nel momento in cui arrivavano aperture da Grillo – all’improvviso è emerso un accordo con Berlusconi, un accordo che doveva essere talmente forte e stringente da giustificare anche la rottura dell’alleanza con Vendola e la frattura interna al partito. Un accordo che però non è mai stato spiegato, nelle sue linee, nel suo progetto e nemmeno nelle sue conseguenze. Un accordo che portava a eleggere Franco Marini senza far comprendere all’opinione pubblica ma nemmeno ai propri parlamentari il significato e il senso della scelta. 

Viviamo un tempo in cui i cittadini pretendono di capire, si sono abituati alle narrative e a dare un volto ai progetti: le chimiche partitiche, i candidati che servono solo a sbloccare altre geometrie sono incomprensibili e inaccettabili. Eppure la storia di Marini aveva elementi degnissimi che avrebbero contrastato l’ondata che si è riversata su di lui: un alpino che ha passato la vita a preoccuparsi del lavoro, un uomo dai gusti semplici che probabilmente avrebbe fatto partire il suo settennato nel Sulcis o tra le vittime dell’Ilva a Taranto. Nulla di ciò è stato offerto al Paese, se non un nome scelto da Berlusconi in una rosa che cercava un minimo comun denominatore. Così si è scatenata la rivolta, parlamentare e popolare. 

Le persone, e non solo quelle che in queste ore si scatenano su twitter e facebook – con tassi di faziosità e accuse deliranti che fanno francamente spavento –, vogliono al Quirinale qualcuno di cui capiscono il senso, di cui possono apprezzare il percorso e di cui si possono fidare. 

Le forze politiche hanno il diritto, anzi il dovere di scegliere, indicare e governare, è questo il senso della democrazia rappresentativa e dovremmo tenercela cara di fronte a tentazioni totalitarie di minoranze rumorose, ma per farlo devono mostrare coraggio e idee chiare. Se non si è capaci di guidare allora sarebbe giusto farsi da parte o perlomeno cercare di ricostruire la propria parte del campo partendo dal basso, restituendo la parola alla base.  

In questo caso la base sono i grandi elettori della coalizione di centrosinistra, che questa mattina verranno interpellati per evitare nuove figuracce laceranti. È giusto e molto più in sintonia con i tempi e con gli umori del Paese andare a vedere qual è il nome su cui si possa coagulare il maggior numero di consensi, ma poi si chieda a tutti di rispettare lealmente l’indicazione, ripartendo da quell’altro principio basilare che si chiama maggioranza.  

La Stampa, 19 aprile 2013

giovedì 18 aprile 2013

“Elezioni Presidente della Repubblica. Il suicidio del Pd” di Tomaso Montanari


giovedì 18 aprile 2013 - Pensieri e parole da condividere

Il suicidio del Pd in diretta tv. È quello a cui stiamo assistendo in queste ore. Ma come è possibile scegliere di eleggere alla Presidenza della Repubblica Franco Marini con Berlusconi, quando sarebbe possibile votare Stefano Rodotà con il Movimento 5 stelle? Come è possibile avere anche un solo dubbio tra il delfino di Donat-Cattin e il padre del diritto dei beni comuni in Italia? Tra un residuo (non dei peggiori, certo) della Democrazia Cristiana e il primo presidente del Pds?

Con una scelta come questa il Pd tronca definitivamente con la storia della Sinistra italiana.

Perché? L’unico motivo plausibile è l’ossessione di fare comunque un governo Bersani, ottenendo la desistenza, la benevolenza, l’astensione o cosa volete dal Pdl in cambio del salvacondotto personale per il Caimano. Non si vede alcun’altra ragione.

Sull’altare di una classe dirigente finita non viene sacrificata ‘solo’ la presidenza della Repubblica, e non solo l’alleanza con Sel: è lo stesso Pd ad uscire distrutto.

Se il Pd potesse consultare i suoi elettori, e perfino i suoi iscritti, in tempo reale, sarebbe travolto dallo sdegno. Centinaia di migliaia di persone giurano in queste ore che non voteranno mai più Pd, e moltissimi iscritti sono pronti a restituire la tessera.

Non so per chi voteranno i Grandi Elettori renziani, ma le parole pronunciate ieri da Matteo Renzi sono da sottoscrivere una per una (come spesso succede per la pars destruens: tutt’altro discorso vale, purtroppo, per il suo progetto, o meglio non-progetto, politico).

Si rimane invece allibiti di fronte a quanto dichiarato da Matteo Orfini, che ha sostanzialmente detto che non condivide la scelta di Marini, ma lo voterà. Ma come? Siamo a fare, giustamente, la predica ai grillini che calpestano allegramente l’articolo 67 della Costituzione (quello che garantisce la libertà del mandato di ogni singolo parlamentare), e proprio il responsabile cultura del Pd è così civilmente e politicamente incolto da inginocchiarsi alla disciplina di partito? Ma davvero vogliamo distruggere ogni possibilità di futuro?

Se a Marini mancheranno trenta voti nel primo scrutinio, uno spiraglio sarà ancora aperto.

Se il Pd non tornerà in sé, se continuerà a preferire l’abbraccio d Berlusconi alla possibilità di cambiare il Paese, sarà davvero finita. E non solo per il Pd.

Il Fatto Quotidiano, 18 aprile 2013



mercoledì 17 aprile 2013

“Ma serve un pastore d’anime” di Massimo Gramellini


mercoledì 17 aprile 2013 - Pensieri e parole da condividere

Un cardinale di Curia o un pastore d’anime? A differenza dei porporati che hanno incoronato papa Francesco, i politici di Pd e Pdl intenti a ordire la tela del Conclave presidenziale sembrano rifiutarsi di cogliere la richiesta di uno strappo alle consuetudini che arriva dalla stragrande maggioranza dei cittadini.  

Da settant’anni la prassi è di spedire sul Colle un personaggio dell’establishment che nel corso della sua carriera abbia collezionato il minore numero di nemici possibile. In virtù della carica, il prescelto entra in contatto col popolo e con il tempo si trasforma da notabile elitario in padre della Patria. Ora però si avverte l’urgenza di uno scarto, di incoronare un Presidente che sia da subito in sintonia con la pancia e il cuore di questo Paese economicamente e psicologicamente allo stremo.  

La scelta, prima ancora che politica, dovrebbe essere caratteriale. Il prossimo Capo dello Stato erediterà da Napolitano, che a sua volta l’aveva ereditata da Ciampi, l’ultima trincea istituzionale rispettata dagli italiani. L’elezione di una personalità percepita come esponente algido della Casta sarebbe masochista, perché romperebbe il filo esilissimo che attraverso il Quirinale tiene ancora l’Italia collegata al Palazzo. Saltato quel filo, colerebbe a picco tutto.  

Pur di scongiurare la catastrofe, c’è chi propone di puntare su una figura completamente estranea a quei salotti romani dove politici e grand commis si incontrano di continuo per riconoscersi a vicenda l’appartenenza a una classe privilegiata. Non un Forrest Gump, ma uno che nella vita si sia realizzato per meriti propri e in ambiti diversi dalla frequentazione degli amici degli amici. Eppure sarebbe una soluzione ingenua e troppo rischiosa. La Presidenza della Repubblica non è un premio Nobel o un Oscar alla carriera. E’ un incarico che richiede senso e pratica delle istituzioni.  

Prendiamo la bravissima giornalista Milena Gabanelli, che gli iscritti del movimento di Grillo hanno incoronato nelle consultazioni sul web. Chi non si sentirebbe rappresentato da una donna così tenace, capace e di buonsenso? Affiora però il dubbio legittimo che possa transitare di colpo dalla sala montaggio di Report al comando delle Forze Armate e alla presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura. Per quanto la classe dirigente abbia dato pessime prove di sé, conoscere i meccanismi dell’amministrazione dello Stato rimane un requisito necessario per un Paese che non voglia trasformarsi in un set sperimentale. In fondo anche Francesco non è stato scelto fra le guardie svizzere, ma all’interno del collegio cardinalizio. 

La sfida è trovare un Papa che venga idealmente dalla fine del mondo. Un uomo o una donna che, pur frequentando la Casta per dovere di ufficio, non ne sia stato contaminato nei comportamenti e nelle idee. Ciascun lettore gli impresti la faccia che vuole, ma il/la Presidente che oggi serve all’Italia deve avere come primo requisito una umanità profonda. Serve qualcuno che, pur essendo «uno di loro», sia fin dal primo giorno «uno di noi».  

La Stampa, 17 aprile 2013



martedì 16 aprile 2013

Bolzano - Tubre


domenica 14 aprile 2013 - Andar per Città

Paesino di montagna in val Venosta, ben curato con pittoreschi vicoli e case in stile reto-romanico.
Due possenti rovine di castelli, Rotund (X secolo) e Reichenberg (XII secolo), un tempo residenze dei vescovi di Coira, dominano la località. 
All'entrata del paese, ci si imbatte in una rarità storico-artistica, la chiesa romanica di S. Giovanni del 1220 a forma di croce greca. All'esterno, l'affresco di San Cristoforo è considerato una tra le più antiche raffigurazioni del genere del Tirolo.
San Michele nei pressi del cimitero, fu consacrata nel 1383 e nel 1493, la forma attuale a due piani appartiene all’ultimo periodo. Nel bovindo dell’altare gotico a portelli si sono mantenuti in buono stato affreschi del 15° secolo. 











Lago di Resia e Sorgente dell’Adige


domenica 14 aprile 2013 - Sensi e Sensazioni

Il Lago di Resia è un lago alpino artificiale situato in val Venosta a 1.498 metri, nel comune di Curon Venosta (BZ) ed è il lago più grande dell'Alto Adige.
La costruzione di una grande diga nel 1949/50 sommerse l'antico abitato di Curon che venne ricostruito più a monte. 163 case e 523 ettari di terreno coltivato a frutta furono sommersi. Se ne ricavò il bacino dell'attuale lago, lungo 6 km e largo 1 km nel punto massimo.
La cima del campanile del vecchio paese emerge dalle acque. In inverno, quando il lago gela, il campanile è raggiungibile a piedi. Una leggenda racconta che in alcune giornate d'inverno si sentano ancora suonare le campane (rimosse il 18 luglio 1950, prima della formazione del lago).









L'Adige è il secondo fiume italiano dopo il Po. Sfocia nel Mar Adriatico presso Sant'Anna di Chioggia, in località Isola Verde. Attraversa le città di Trento, Verona, Legnago, Cavarzere, Chioggia e lambisce Merano, Bolzano e Rovereto. Passa per il Trentino-Alto Adige e il Veneto. La valle in cui scorre assume vari nomi: Val Venosta tra la sorgente e Merano, Val d'Adige tra Merano e Trento, Vallagarina tra Trento e Verona, e quindi Val Padana tra Verona e la foce.
La curiosità è che la sua sorgente vera e propria non è al Passo Resia, come indicato da sempre sui libri scolastici, ma è posta all'interno del Vallo Alpino, presso lo Sbarramento Passo Resia.