giovedi 6 settembre 2012 - Pensieri e Parole da condividere
Giulia Facchini Martini, nipote del cardinale Carlo Maria Martini, ha raccontato con semplicità toccante la morte dello zio, con una lettera che comincia così: “Caro zio, zietto come mi piaceva chiamarti negli ultimi anni quando la malattia ha fugato il tuo naturale pudore verso la manifestazione dei sentimenti, questo è il mio ultimo, intimo saluto”. Ci sono brani della lettera che riguardano soprattutto e forse solo i credenti, per i quali “lo spirito, la vera essenza, rimaneva forte, presente seppure non visibile agli occhi” dopo la morte, dopo che “lì sul letto rimaneva soltanto l’involucro fisico”. Ma ce ne sono altri che ci riguardano tutti, riguardano da vicino ogni cittadino (e del resto, non è stata proprio questa cifra della presenza del cardinale a capo della diocesi di Milano a spingere tanti agnostici e atei a dargli l’estremo saluto?).
Scrive Giulia: “Tu vorresti che parlassimo dell’agonia, della fatica di andare incontro alla morte, dell’importanza della buona morte”. E sente che parlarne è un dovere, quando vede un malato di Sla che va incontro al feretro. Perciò si rivolge così allo zio: “Avevi paura, non della morte in sé, ma dell’atto del morire, del trapasso e di tutto ciò che lo precede. Ne avevamo parlato insieme a marzo e io, che come avvocato mi occupo anche della protezione dei soggetti deboli, ti avevo invitato a esprimere in modo chiaro ed esplicito i tuoi desideri sulle cure che avresti voluto ricevere. E così è stato”. Ma di questo già è stato scritto, del rifiuto della nutrizione e idratazione artificiali che una sciagurata legge vorrebbe invece rendere obbligatoria per molti morenti. Più importante quello che segue: “Avevi paura, paura soprattutto di perdere il controllo del tuo corpo, di morire soffocato (…). Con la consapevolezza condivisa che il momento si avvicinava, quando non ce l’hai fatta più, hai chiesto di essere addormentato. Così una dottoressa con due occhi chiari e limpidi, una esperta di cure che accompagnano alla morte, ti ha sedato”.
Carlo Maria Martini ha deciso, deciso liberamente e sovranamente, il momento in cui voleva perdere definitivamente conoscenza, non “vivere” più la propria agonia e la propria morte. Questo e non altro, infatti, significa essere sedati. Non sentire più nulla, non provare più nulla, essere “fisicamente non cosciente” (anche se un credente crede, e dunque anche Giulia lo riafferma, che lo spirito misteriosamente resti presente nella sedazione, proprio come presente sarà anche nella morte e dopo, per l’eternità). Essere già, soggettivamente, nel sonno eterno, nell’eterno riposo, nella fine irreversibile di ogni sofferenza e di ogni angoscia.
Carlo Maria Martini ha giustamente goduto della libertà di scegliere il momento in cui dire basta, essere sedato, non dover provare più nulla, il momento in cui “una dottoressa con due occhi chiari e limpidi” ha compiuto il gesto che il malato ha chiesto. Questa è l’“alleanza medico-paziente”, troppe volte invocata a sproposito e sadicamente, per imporre al paziente ore e giorni di vigile sofferenza che vorrebbe rifiutare.
Carlo Maria Martini ha goduto di un privilegio, mentre avrebbe dovuto godere di un diritto. Un privilegio, perché ogni giorno in ogni ospedale italiano ci sono esseri umani, “soggetti deboli”, che rivolgono la stessa richiesta, essere definitivamente sedati, non dover provare più nulla mentre il loro organismo si avvia verso l’ultimo respiro, e che non vengono esauditi, non trovano la loro “dottoressa con due occhi chiari e limpidi”, ma la disumana durezza burocratica che quella sedazione definitiva rifiuta. Malati terminali che per ore, giorni, settimane, sono costretti alla mostruosa altalena di periodi di sedazione alternati a periodi di veglia e coscienza, saturi di quelle angosce che il cardinal Martini ha giustamente preteso di evitare, di non percepire, di lasciar vivere al suo organismo ma non al suo essere cosciente. Ora attraverso le parole affidate alla nipote, chiede a tutti, dunque in primo luogo alle istituzioni “di condividere i suoi [del morente] timori, di ascoltare i suoi desideri senza paura o ipocrisia”.
Ecco, io credo che il modo migliore per onorare il cardinal Martini sarebbe una “legge Martini” che stabilisca in modo inequivocabile il diritto di ogni malato di scegliere il momento in cui ricevere una sedazione definitiva che lo accompagni in perfetta e irreversibile incoscienza alla morte dell’organismo. Ma sono ancora più certo che la Chiesa gerarchica e i politici che ne sono succubi (quasi tutti, anche a “sinistra”) e gli atei devoti e i falsi liberali che imperversano nei media e il cui nome è Legione, troveranno mille cavilli per dire no.
Il Fatto Quotidiano, 6 settembre 2012
Giulia Facchini Martini, nipote del cardinale Carlo Maria Martini, ha raccontato con semplicità toccante la morte dello zio, con una lettera che comincia così: “Caro zio, zietto come mi piaceva chiamarti negli ultimi anni quando la malattia ha fugato il tuo naturale pudore verso la manifestazione dei sentimenti, questo è il mio ultimo, intimo saluto”. Ci sono brani della lettera che riguardano soprattutto e forse solo i credenti, per i quali “lo spirito, la vera essenza, rimaneva forte, presente seppure non visibile agli occhi” dopo la morte, dopo che “lì sul letto rimaneva soltanto l’involucro fisico”. Ma ce ne sono altri che ci riguardano tutti, riguardano da vicino ogni cittadino (e del resto, non è stata proprio questa cifra della presenza del cardinale a capo della diocesi di Milano a spingere tanti agnostici e atei a dargli l’estremo saluto?).
Scrive Giulia: “Tu vorresti che parlassimo dell’agonia, della fatica di andare incontro alla morte, dell’importanza della buona morte”. E sente che parlarne è un dovere, quando vede un malato di Sla che va incontro al feretro. Perciò si rivolge così allo zio: “Avevi paura, non della morte in sé, ma dell’atto del morire, del trapasso e di tutto ciò che lo precede. Ne avevamo parlato insieme a marzo e io, che come avvocato mi occupo anche della protezione dei soggetti deboli, ti avevo invitato a esprimere in modo chiaro ed esplicito i tuoi desideri sulle cure che avresti voluto ricevere. E così è stato”. Ma di questo già è stato scritto, del rifiuto della nutrizione e idratazione artificiali che una sciagurata legge vorrebbe invece rendere obbligatoria per molti morenti. Più importante quello che segue: “Avevi paura, paura soprattutto di perdere il controllo del tuo corpo, di morire soffocato (…). Con la consapevolezza condivisa che il momento si avvicinava, quando non ce l’hai fatta più, hai chiesto di essere addormentato. Così una dottoressa con due occhi chiari e limpidi, una esperta di cure che accompagnano alla morte, ti ha sedato”.
Carlo Maria Martini ha deciso, deciso liberamente e sovranamente, il momento in cui voleva perdere definitivamente conoscenza, non “vivere” più la propria agonia e la propria morte. Questo e non altro, infatti, significa essere sedati. Non sentire più nulla, non provare più nulla, essere “fisicamente non cosciente” (anche se un credente crede, e dunque anche Giulia lo riafferma, che lo spirito misteriosamente resti presente nella sedazione, proprio come presente sarà anche nella morte e dopo, per l’eternità). Essere già, soggettivamente, nel sonno eterno, nell’eterno riposo, nella fine irreversibile di ogni sofferenza e di ogni angoscia.
Carlo Maria Martini ha giustamente goduto della libertà di scegliere il momento in cui dire basta, essere sedato, non dover provare più nulla, il momento in cui “una dottoressa con due occhi chiari e limpidi” ha compiuto il gesto che il malato ha chiesto. Questa è l’“alleanza medico-paziente”, troppe volte invocata a sproposito e sadicamente, per imporre al paziente ore e giorni di vigile sofferenza che vorrebbe rifiutare.
Carlo Maria Martini ha goduto di un privilegio, mentre avrebbe dovuto godere di un diritto. Un privilegio, perché ogni giorno in ogni ospedale italiano ci sono esseri umani, “soggetti deboli”, che rivolgono la stessa richiesta, essere definitivamente sedati, non dover provare più nulla mentre il loro organismo si avvia verso l’ultimo respiro, e che non vengono esauditi, non trovano la loro “dottoressa con due occhi chiari e limpidi”, ma la disumana durezza burocratica che quella sedazione definitiva rifiuta. Malati terminali che per ore, giorni, settimane, sono costretti alla mostruosa altalena di periodi di sedazione alternati a periodi di veglia e coscienza, saturi di quelle angosce che il cardinal Martini ha giustamente preteso di evitare, di non percepire, di lasciar vivere al suo organismo ma non al suo essere cosciente. Ora attraverso le parole affidate alla nipote, chiede a tutti, dunque in primo luogo alle istituzioni “di condividere i suoi [del morente] timori, di ascoltare i suoi desideri senza paura o ipocrisia”.
Ecco, io credo che il modo migliore per onorare il cardinal Martini sarebbe una “legge Martini” che stabilisca in modo inequivocabile il diritto di ogni malato di scegliere il momento in cui ricevere una sedazione definitiva che lo accompagni in perfetta e irreversibile incoscienza alla morte dell’organismo. Ma sono ancora più certo che la Chiesa gerarchica e i politici che ne sono succubi (quasi tutti, anche a “sinistra”) e gli atei devoti e i falsi liberali che imperversano nei media e il cui nome è Legione, troveranno mille cavilli per dire no.
Il Fatto Quotidiano, 6 settembre 2012
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