sabato 27 novembre 2021

Sono Dio di Giacomo Sartori

sabato 27 novembre 2021 - Sensi e sensazioni

Non so se capita anche a voi, ma quando leggo un libro che mi “prende”, nasce immediatamente e profondamente una gran voglia di condividerlo con qualcuno. Allora passo in rassegna tutti, ma proprio tutti gli amici e conoscenti che ho, per scoprire chi potrei coinvolgere in quella lettura per me così appassionante.

Ma il dubbio è sempre dietro l’angolo, perchè un libro, o meglio il suo contenuto ti può entusiasmare per il genere, con la trama, con i personaggi, per le assonanze con la tua vita, per infiniti altri motivi, anche strettamente personali e il desiderio di trovare le “anime gemelle” si può affievolire. 

Ma quando un libro inizia così: 


“NON HO BISOGNO DI PENSARE

Sono Dio. Lo sono sempre stato, lo sarò sempre. Un però con riflessi affilati di diamante, e senza corrispettivi nelle lingue degli umani. Quando un uomo dice ti amerò sempre tutti sanno che quel è una pagliuzza che si libra fragile e inconsistente nell’aria. Un voto velleitario, o che comunque ha pochissime probabilità di essere assolto. In altre parole una menzogna. Se invece sono io a dirlo, sempre è davvero. Va fatto uno sforzo per capirsi.
Sono Dio e non ho bisogno di pensare. Fino a questo momento non ho mai pensato, e non mi è mancato in alcun modo. L’umanità è messa così male perché pensa: il pensiero è per definizione lacunoso e imperfetto, e fuorviante. A un pensiero se ne può opporre un altro di segno opposto, a quest’ultimo un altro ancora, e avanti così: questo inane cicaleccio mentale è quanto di meno divino si possa immaginare. Qualsiasi pensiero è destinato a morire, come la mente che lo ha formulato. Un dio non pensa, ci mancherebbe altro.

Una galassia spirale è una galassia spirale, una nana gialla è una nana gialla, un platelminta turbellare è un platelminta turbellare, io invece sono Dio. È così. Non domandatemi come ho fatto a essere Dio, perché nemmeno io lo so. O meglio lo so come so tutto, ma sarebbe infinitamente lungo da mettere in parole, e detto francamente non mi sembra che il gioco valga la candela. Il mio rango, chiamiamolo così, presuppone che mi si accordi un minimo sindacale di fiducia.
Un dio non guarda, non aspetta, non ascolta. Non digerisce, non agogna, non rutta. Un dio è impegnato in qualcosa che il linguaggio umano non può esprimere, e che comprende tutte le azioni e le non azioni che l’insieme delle lingue può enunciare, ma anche quelle indicibili a parole. E quindi travalica le prime come le seconde. Si potrebbe dire che un dio è, se solo il verbo essere potesse costituire una pallidissima ombra del mio autentico esistere che è in primo luogo senso. Sono il significato di tutto.

Beninteso il platelminta e il sole, che come tutti sanno è una nana gialla, sono in un certo senso anch’essi divini, visto che li ho creati io. Se qualcuno li chiamasse dio, certo non mi offenderei. Se però molte civiltà del passato consideravano il sole un dio, per quanto ne sappia nemmeno la comunità più radicalmente animista ha fatto di un verme necrofago una divinità. Qualcuno dovrebbe spiegarmene il motivo: per quanto mi riguarda non vedo alcuna ragione perché una stellina, il sole, debba essere papabile e il platelminta no. Ci sarebbe insomma da discutere. Per semplificare le cose (se ci mettiamo a fare i puntigliosi non ne veniamo più fuori) consideratemi distinto dalle nane gialle e dai platelminti turbellari: immaginatemi come Dio e basta. Chiunque è capace di immaginarsi Dio.

Non so nemmeno io perché mi sono risolto a esprimermi, o più propriamente a scrivere. Nessuno mi ci ha costretto e non si può nemmeno parlare di bisogno impellente: non soffrivo di solitudine, non avevo qualcosa da esternare o da tramandare. Non mi stufavo, non provavo desiderio di ascoltare, diciamo così, la mia stessa voce. Non volevo fare una nuova esperienza, espressione per me senza senso, non cercavo il successo mediatico (il nuovo Paradiso a cui ambiscono gli umani), o anche solo della comprensione. Dio non ha bisogno di queste quisquilie. Diciamo allora che non lo so. In realtà però nella mia onniscienza so anche questo. Ci vorrebbero forse dieci enciclopedie interattive con miliardi di voci e rimandi per spiegarlo con sufficiente trasparenza e intelligibilità agli umani, che sono poco intelligenti, ma sarebbe possibile. Non vedo però i vantaggi di una siffatta performance ermeneutica.”

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