lunedì 7 dicembre 2020

Intervista a Giuseppe Negretto Tasoniero

Luigi Domenico Scrinzi intervista Beppe Negretto Tasoniero 

lunedì 7 dicembre 2020 – Terreperse per ritrovarsi

I moti convettivi? Mi chiedi troppo, Bio. So niente di questa roba. Ho fatto a pena la tersa media. A-ogni-modo penso d’intendere la facenda. Da le nostre parti, le done dixe che se te vo’ che camini e mariti piasa, i g’ha d’aver la cana che tira e i sapia scaldar anima e corpo; ma guai se i fuma in casa; se no fogo e amor vateciava! Dunque dai me’ camini, caldo e fuoco a volontà e mai un filo de fumo! Perché vedito? – (mi mostra quello che ha appena acceso e d’un tratto oltrepassa la terza media) – tutto dipende dai rapporti dimensionali di tre fori tra loro: 
1. Il naso, purchè sia tappabile. 
2. La bocca, anche se tutta aperta. 
3. Un bel buco di sotto che, al pari della canna fumaria, el g’ha da       esser sempre nèto e caldo, come do’ passa l’ovo de la galina in        proverbio”. 
E se la ride, vedendo che ignoro il grasso adagio locale. 
La visione del mondo organico-vernacolare di Negretto Tasoniero Giuseppe, detto Beppe, ti sorprende. Lui compara, affabula e incanta. 
Si, ho due cognomi; ma non sono nobile. Figurarse! Li ho ereditati da mio padre, ma sono una pietosa etichetta delle suore dell’Ospizio degli Esposti, in via dietro Mura a Verona. L’era uno di quei pori buteleti messi in mostra a ci li volea comprar a la rua. A dirla vocspopuli, me opà l’era figlio di enneenne. So ben che gh’è ci pagarìa, per averne due, di cognomi. A me hanno solo recato un gran fastidio: nel fare la firma e a dare spiegazioni. Mi me bastaria Beppe, cioè il San Giuseppe patrono dei operai, marangoni, carpentieri e poi Negretto, il bel colore de la ghisa, del féro ‘pena forgià e de la calusene de le me cane fumarie. 
Negretto l’è - come dire? – un cognome colorato. Ecco, si… Anca un po’ rassista, un po’ come mi, te lo se’. È il giusto soranome de ci suda e fadiga come un negro, o negreto, appunto come mi… come la vita d’altronde!”.

Chi mi parla è un marcantonio di alpino, un artigliere di montagna. Lo accompagno alla legnaia. Ha una scure a lama larga. Con un colpo solo, sbrega via la gran testa della regina delle soche, da vero boia. Non so lui quanti anni abbia. Mi pare cinquanta, o giù di lì, ma non li dimostra. Ha attizzato il fuoco per me. Per darmi un’accoglienza calda in questa bigia e gelida giornata d’autunno inoltrato. È tempo di calijgo – etimo arcaico, latino, stessa radice di caliggine – e pare fatto apposta per il mio incontro con il genius del luogo.

Beppe ha un open-space fatto come la capanna d’un presepe vivente. Il suo office ha tre pareti aperte. La quarta è un gran camino che mette in mostra un butin di luce dorata, calda e viva dentro una mangiatoia di ferro rovente che libra falive. Due fedeli pastori – otto zampe tedesche d’incerto pedigree – fanno seria e bonaria guardia a le stele. 
 
Un enorme tavolo da Polifemo, con una corona di vecchie careghe tutt’intorno, manifesta la socialità del ciclope paron de casa. Che ha quattr’occhi però, no uno solo. “Eeeh, varda che so’ mia né presbitero né orbo gn’ancora: me meto su i ociai solo par scansare le sginse de la forgia”.

È un’opera d’arte, la tola de Polifemo. “Quatro cerchioni come el marchio de l’Audi. Diametro 95 centimetri! Li ho incrociati a due a due… Ma chè ruseni: acciaio Corten!”. Gli anelli fanno da supporto a un ligneo pachiderma grigio chiaro, disteso, sfibrato e levigato. È la grande asse di un castagno – figlio dell’età di Omero – che platealmente si spande e si sposa con il bel basamento che lo sostiene. Un perfetto equilibrio di piani, forme, materie e volumi.

Ho fatto tutto da solo ne la mia vita. Con la forza e la salute che mi ha sempre dato il Padreterno. Anca çerta furia creativa – che no’ so, né da dove la riva né come far a pararla via – par mi l’è come un talento del Vangelo. È una compagna fedele, ma non è mia. Mi è stata data. Per cui io mai la tradisco; e lei, uguale!”.

Gli chiedo cosa significhi l’acronimo del cartello posato a terra, accanto a uno spigolo del camino. “Vol dire che l’è ‘na mia creatura originale. Di mia invenzione. O mejio, a dirte la sincera verità, g’ho fato un poco la spia a la concorensa; ma sensa copiare! L’ho ricombinata tuta a modo mio: l’apparato convoglia il vento caldo, dei to’ moti convetivi del casso, per riciclare il 50% del calore. Dixemo cogenerazione? E cosi contento anca el vocabolario tennico da tre cani!”.

Sono andato stamattina tardi nel deposito, magaxin, atelier con annessa scio-rum del mio amico Beppe. Sotto le fronde ancora verdi di un gelso monumentale sta il suo banco di lavoro: due lastrone di ferro, pesanti mezza tonnellata ciascuna, sorrette da colonne di ghisa a filoterra. Polifemo trattiene la mazzetta in resta, per accogliermi col suo consueto sorriso, misto d’ironia e di gradita sorpresa. Il nostro homo faber ama tanto l’ombra estiva della chioma del gran “moraro” vegliardo. Ogni tanto ci rivede camminare i cavaleri serici, tra quelle foglie. Lui mai visti. Solo sentito dire dalle donne vecchie di casa sua. 

È nato a Terrossa. Vicino a Roncà. Ha lavorato da… e poi da… e… camin…camin.. infine da. Nel 1995, la svolta: ”Me meto in proprio!...”. Da allora Giuseppe Negretto Tasoniero non vorrà più essere un numero due. Solo l’asso di picche!.

Lo slogan del principe dei camini è un motto araldico, quello del suo mancato blason in arma, che recita così: “Cari amici, da mi, i primi sono davvero gli ultimi dato che sono pezzi unici. Qui solo numeri uno. Il secondo non c’è!”.

Ecco le nostre creature (Il basalto Negretto, Il Bianco Cipria, Il Fior di Mandorlo, Il Fenicottero, La tòla di Polifemo, La Soca Fossile del Tibet, L’Arco di Costantino, L’Albio di Cleo, Il Porfido di Faraone, The Benjamin Franklin Stove, La Formella esoterica di Loggia Massonica ecc

Eh già, il vero riciclo è qui. “Il sasso scartato dai costruttori è diventato la pietra d’angolo…”. Altro che sassi d’inciampo. Beppe, gli scarti, li rancura e mai voce dialettale fu più adatta. Rancura anche gli avanzi seriali dei laminatoi. Li va a scovare, cercandone il senso formale. Che trova nei vuoti che lo emozionano. E così fa con le macerie, il cosiddetto materiale di risulta dei cantieri edili, per dar loro vita nuova. Unica. Senza fratelli gemelli. Sostiene Beppe: “Il mio deposito non è un cimitero de piere vècie, ma il vivaio di numeri primi”. Gli sfridi dei bisturi laser, scarto dei semilavorati dell’industria siderurgica, sono per lui una trasmutazione di sfondi trash, immondi come le opere di Alberto Burri o le prime sculture di Gio’ Pomodoro (n.d.r. – Beppe ne ha un vago sentito dire, ma non sa chi siano gli artisti e non ne conosce l’arte), forme causate, non casuali, e alle quali dare nuova significazione. Forse è per questo che il fondale in Corten di un suo camino dal design essenziale, ha il pregio dell’originalità del “gesto” che proviene da concettualità naïves. Una delle lastre corten parietali ha un lembo piegato in fuori (?)…” “… par darghe la baija a tute le maestre che mi rimproveravano per le recie inguardabili ne le pagine de i me’ primi pori quaderni”.

Andate a trovarlo, il Negretto Tasoniero.

Solo vedendo di persona le sue creature se ne comprende il valore. Dunque, andateci, fiancheggiando controcorrente l’Alpone (qui detto Sime), bizzarro torrente toponimo della Valle, laguna fossile della più celebre pesciara dell’Eocene, Bolca di Vestenanova, la sua sorgente. Tra Montecchia di Crosara e San Giovanni Ilarione. Località Lauri. Dopo il ponte Facchin. Prima delle Boarie. Beppe è lì: on the road.

E dietro arido scorre il Sime.

 

 

2 commenti:

  1. Bella storia. Ho conosciuto Giuseppe e devo dire che ogni volta che lo vado a trovare scopro qualche oggetto nuovo, ma soprattutto qualche sua nuova sorprendente sfumatura.

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  2. Grazie Antonio molto gentile e grazie del complimento, comunque quando decidete di venirmi a trovare mi fa sempre piacere ciao Beppe.

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