venerdì 19 aprile 2013 - Pensieri e parole da condividere
Il disastro a cui abbiamo assistito ieri, quello del partito di maggioranza in Parlamento che propone un suo candidato alla presidenza della Repubblica trova il voto degli avversari ma non riesce a portare i suoi, è la logica conseguenza di ciò che è avvenuto negli ultimi cinque mesi.
È figlio della mancanza di coraggio e di idee forti, chiare e comunicate in modo convincente. Per questo il Pd non ha vinto le elezioni, per questo non si è ancora riusciti a formare un governo, per questo ha una base divisa, arrabbiata, incredula o sgomenta. Perché bisogna saper dare un colore e un sapore alle cose se si vuole che gli italiani le capiscano e le facciano proprie.
Può darsi che questa sera avremo un nuovo capo dello Stato, figlio di una qualche alleanza o forse di un sano ripensamento dell’ultima ora, ma purtroppo non nato da un progetto organico e credibile su cui poggiarsi e da cui partire.
L’unica scommessa fatta da Bersani nei 53 giorni che ci separano ormai dal voto è stata quella di prendere tempo, di rinviare, nella speranza che il passare delle settimane potesse miracolosamente sciogliere i nodi irrisolti.
Già in campagna elettorale non era stato capace di dare un messaggio riconoscibile, un’indicazione di rotta per il Paese e gli italiani, una ricetta di speranza e di cambiamento comprensibile a tutti. Eppure l’uomo era dotato di buon senso, di una visione pragmatica ed efficiente e di una buona dose di ironia. Ma una sorta di paralisi e l’errata convinzione che bastasse restare fermi - distinguendosi dagli altri per sobrietà e per la serietà di non fare promesse impossibili - per arrivare naturalmente a Palazzo Chigi avevano prodotto un risultato monco e deludente.
Non averne preso atto subito, aver ripetuto come un mantra che al Pd «spetta» l’azione, o la proposta o la guida, ma senza avere poi la forza di guidare i processi (a dire il vero nemmeno di metterli in moto) ha distrutto una leadership e la tenuta di un partito e del suo mondo di riferimento.
Se non hai i numeri devi decidere con chi ti vuoi accompagnare per averli, ma il compagno di viaggio deve essere d’accordo e il percorso deve essere chiaro. Si è corteggiato Grillo e si sono inventati due presidenti delle Camere non ortodossi e non di partito per compiacere lui e tutta quella parte di opinione pubblica che in modo ossessivo riconosce valore soltanto a ciò che è nuovo e diverso. Ma ciò non è servito a costruire nessun progetto perché il Movimento 5 Stelle non ne voleva sapere di assumersi la sua parte di responsabilità. Prendere atto di questo portava a un bivio obbligato: dialogare con Berlusconi o rivendicare il diritto ad eleggersi un Presidente a maggioranza semplice per poi tornare a votare con un volto e un programma nuovi, variando insomma l’offerta politica.
Nessuna delle due strade è stata scelta, si è rimasti nel limbo continuando a vagheggiare di una terza via che permettesse il crearsi di convergenze magiche sia per eleggere il successore di Napolitano sia per dare il via a un governo di minoranza.
Tutto questo fino a un paio di giorni fa, quando – proprio nel momento in cui arrivavano aperture da Grillo – all’improvviso è emerso un accordo con Berlusconi, un accordo che doveva essere talmente forte e stringente da giustificare anche la rottura dell’alleanza con Vendola e la frattura interna al partito. Un accordo che però non è mai stato spiegato, nelle sue linee, nel suo progetto e nemmeno nelle sue conseguenze. Un accordo che portava a eleggere Franco Marini senza far comprendere all’opinione pubblica ma nemmeno ai propri parlamentari il significato e il senso della scelta.
Viviamo un tempo in cui i cittadini pretendono di capire, si sono abituati alle narrative e a dare un volto ai progetti: le chimiche partitiche, i candidati che servono solo a sbloccare altre geometrie sono incomprensibili e inaccettabili. Eppure la storia di Marini aveva elementi degnissimi che avrebbero contrastato l’ondata che si è riversata su di lui: un alpino che ha passato la vita a preoccuparsi del lavoro, un uomo dai gusti semplici che probabilmente avrebbe fatto partire il suo settennato nel Sulcis o tra le vittime dell’Ilva a Taranto. Nulla di ciò è stato offerto al Paese, se non un nome scelto da Berlusconi in una rosa che cercava un minimo comun denominatore. Così si è scatenata la rivolta, parlamentare e popolare.
Le persone, e non solo quelle che in queste ore si scatenano su twitter e facebook – con tassi di faziosità e accuse deliranti che fanno francamente spavento –, vogliono al Quirinale qualcuno di cui capiscono il senso, di cui possono apprezzare il percorso e di cui si possono fidare.
Le forze politiche hanno il diritto, anzi il dovere di scegliere, indicare e governare, è questo il senso della democrazia rappresentativa e dovremmo tenercela cara di fronte a tentazioni totalitarie di minoranze rumorose, ma per farlo devono mostrare coraggio e idee chiare. Se non si è capaci di guidare allora sarebbe giusto farsi da parte o perlomeno cercare di ricostruire la propria parte del campo partendo dal basso, restituendo la parola alla base.
In questo caso la base sono i grandi elettori della coalizione di centrosinistra, che questa mattina verranno interpellati per evitare nuove figuracce laceranti. È giusto e molto più in sintonia con i tempi e con gli umori del Paese andare a vedere qual è il nome su cui si possa coagulare il maggior numero di consensi, ma poi si chieda a tutti di rispettare lealmente l’indicazione, ripartendo da quell’altro principio basilare che si chiama maggioranza.
La Stampa, 19 aprile 2013
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