sabato 20 aprile 2013 - Pensieri e parole da condividere
C’era una volta un partito che appariva come il più attrezzato per affrontare l’antipolitica, che era rimasto l’unico organizzato sul territorio e che si poteva permettere il lusso di lasciare in panchina un leader giovane che pescava consensi trasversali. Quel tempo era soltanto tre mesi fa.
Ora c’è un partito senza direzione, senza guida e diviso in correnti che si fanno una guerra spietata arrivando a usare le schede per l’elezione del Presidente della Repubblica come uno stratagemma per contarsi e controllarsi. Ogni corrente ha un modo diverso di scrivere il nome del candidato: solo il cognome, anche il nome per intero o con l’iniziale puntata, messa prima o dopo.
Questo partito non è più in grado di decidere quali sono gli amici con cui allearsi e quali i nemici a cui dare battaglia e allora si è cullato nell’illusione di un’autosufficienza impossibile. Questo partito in sole 24 ore ha bruciato due linee politiche, il padre ispiratore e il segretario, lo ha fatto perché ha smarrito ogni solidarietà interna e perfino l’istinto di sopravvivenza, cancellato dalle paure, dagli egoismi e dalla mancanza di visione.
Pierluigi Bersani ha annunciato ieri sera le sue dimissioni, ma lo ha fatto quando ormai il disastro della sua indecisione aveva già prodotto i massimi risultati possibili: il primo partito italiano non è riuscito ad andare al governo e nemmeno a indicare il Presidente della Repubblica, dopo aver rinunciato a mettere uomini suoi alla guida di Camera e Senato. Questo è successo perché la legislatura è cominciata senza una visione generale delle cose, in cui ogni passaggio è una tessera del mosaico. Prima di tutto si doveva decidere una strategia per eleggere il successore di Giorgio Napolitano, non era tanto importante il nome ma il metodo e soprattutto con quali compagni di strada. Da questa scelta era chiaro che sarebbe disceso tutto il resto, le presidenze delle Camere, le alleanze di governo e il futuro della legislatura.
Invece ogni mossa è apparsa non coordinata con le altre, tanto che si sono annullate a vicenda. Se la tua preoccupazione è parlare a Grillo e recuperare gli elettori conquistati dall’antipolitica allora Grasso e Boldrini hanno un senso, ma allora non puoi presentare una rosa a Berlusconi per eleggere il nuovo capo dello Stato con lui. Perché se avverti l’urgenza di dare segnali di novità e cambiamento, tanto da aver eletto capogruppo alla Camera un trentenne alla prima esperienza parlamentare, poi non candidi l’ottantenne Franco Marini, segretario del Ppi in un’altra era politica.
Se invece pensi che la pacificazione italiana passi dalla fine della guerra con il Cavaliere, allora hai il coraggio di incontrarlo alla luce del sole per definire i termini di una collaborazione. Ma perché tutto ciò accadesse bisognava aver prima capito che forma ha preso oggi la società italiana, quali sono le pulsioni che la agitano e dove stanno andando interi settori di elettorato. Operazione non certo semplice e che mette tutti a dura prova, ma senza la quale si procede a tentoni.
Ieri mattina Mario Monti ha accusato Bersani di aver anteposto l’interesse del partito, scegliendo Prodi per provare a ricompattare il Pd, all’interesse generale, che sarebbe stato invece quello di pacificare la politica italiana. Questa tesi è in parte vera, ma non basta più a spiegare la situazione nella quale ci troviamo: nello schema classico la guerra era fra destra e sinistra e dall’intesa tra questi due campi passava la pace. Ma oggi l’Italia è tripolare e la pacificazione non è solo interna agli schieramenti ma anche e soprattutto tra politica e antipolitica.
Dopo aver provato a eleggere il Presidente della Repubblica insieme a Berlusconi, il Pd si è reso conto che la guerra di cui ha più paura è quella con Grillo e con quella parte ampia della sua base che gli sta voltando le spalle, conquistata dalle parole d’ordine della rete e della lotta alla casta. E’ una battaglia che sente di non poter vincere o di cui ha troppa paura, perché avviene dentro casa, nella propria metà del campo, perché sfascia appartenenze, amicizie e fedeltà antiche. Per questo ieri hanno preferito tornare alle vecchia – e rassicurante – battaglia con Berlusconi, pensando che perlomeno si sarebbe svolta su un terreno conosciuto e che avrebbe ricompattato sia i parlamentari sia l’elettorato.
Non è successo. Perché mentre Bersani temporeggiava la Storia correva avanti strappandogli il partito e approfittando delle sue indecisioni, delle giravolte e dei silenzi. Il tempismo spesso è tutto, saper spiegare le proprie scelte con chiarezza è il resto: Prodi come scelta iniziale poteva essere vincente, mentre ora ogni nome appare vecchio e la mancanza di una strategia comprensibile ha avvelenato ogni passaggio. Ora il Pd è lacerato da spinte che tirano in direzioni opposte e sembrano inconciliabili tra loro, ma soprattutto ha perso lucidità di analisi.
Una parte dei suoi deputati è angosciato dalle pressioni della base e degli intellettuali storicamente di area e vive con il telefono in mano compulsando con ansia l’ultimo messaggio su twitter o su facebook. Perdendo però di vista il fatto che tre quarti degli elettori non hanno votato per Grillo e magari preferirebbero partire dai problemi più urgenti, che sempre più spesso sono legati al lavoro e a un’esistenza decente, piuttosto che dalla riduzione del numero dei parlamentari.
L’altra parte invece parte dalla constatazione che ci sono più italiani nel centro e nella destra che nelle 5 Stelle e che a questi bisogna guardare per ricostruire il tessuto sociale lacerato del Paese, sono questi i deputati che spingevano per Marini e ora guardano a Cancellieri, Grasso o a una soluzione istituzionale e non partigiana. Il loro problema è che non sentono quanto forte è la stanchezza diffusa tra gli italiani per un certo modo di fare politica e così non si preoccupano di spiegare i passaggi con la dovuta trasparenza e efficacia.
Berlusconi silenziosamente gongola, Grillo invece lo fa rumorosamente e con il nome di Rodotà ha lanciato la sua opa sugli elettori del Pd. Probabilmente questa mattina le persone che sorridono sotto i baffi per le disgrazie del Pd e di Bersani sono maggioranza nel Paese, ma se alzassero gli occhi vedrebbero un cumulo diffuso di macerie da cui è difficile immaginare come ricostruire. Se non passa di moda in fretta il gusto di sfasciare e non ci liberiamo dall’idea che sia necessario avere sempre un nemico da eliminare, o a cui dare la colpa, rassegniamoci a uno spettacolare declino.
La Stampa, 20 aprile 2013
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