sabato 14 dicembre 2013 - Andiamo al Cinema
(Samuele Mei) L’elegante tristezza del gelsomino notturno
Vedere un altro film di Woody Allen è una sorta di rito...lo si fa come se fosse l’ultima volta, quasi pregustando il sapore amaro del vuoto che lascerà il grande cineasta newyorkese. “Blue Jasmine” non sarà certo ricordato come il film migliore di Allen, eppure ha quel fascino nostalgico e crepuscolare del “piccolo capolavoro”. Siamo là, in una sala secondaria (un Urano qualsiasi, come figli di un dio minore), insieme ad altre sette anime, ma bastano le prime note di Back O' Town Blues (Louis Armstrong) per immergerci in un altro mondo, il mondo che solo “Woody” sa dipingere sullo schermo. “Blue Jasmine” è un film “classico” e “moderno” nello stesso tempo. La trama è semplice e contorta come in ogni film di Allen: Jasmine (una strepitosa Cate Blanchett) è una reginetta mondana di Park Avenue, sposata al carismatico Hal (Alec Baldwin), uomo d'affari che la vizia e lusinga. Ma Hal è un truffatore fedifrago: la fine del loro matrimonio porta Jasmine alla bancarotta e all'esaurimento nervoso. Sola e in balìa degli antidepressivi, la donna si trasferisce a San Francisco per vivere con la sorella Ginger. Qui, sulla luminosa West Coast, in California, cercherà di rifarsi una vita ma le ombre del passato le impediranno di ritrovare la felicità perduta. Fin qui, la trama. Ma ciò che colpisce in "Blue Jasmine" è la lucidità critica con cui Allen dipinge il conflitto culturale tra classi sociali, l’autenticità rassicurante dei poveri diavoli e l’ipocrisia snob del bel mondo. Il tutto attraverso lo sguardo deformato della protagonista, imprigionata nel mito di una decadenza irreversibile. Nel film spiccano gli scenari scintillanti, gli interni lussureggianti, la colonna sonora super raffinata, la maestria con cui il regista monta e rimonta i frammenti del passato in chiave introspettiva, focalizzando sempre più la questione del complesso di colpa, che avvicina “Blue Jasmine” al capolavoro tragico “Match point”. In “Melinda e Melinda” (2004) Allen si chiede se ci sia più realtà nella commedia o nella tragedia. In "Blue Jasmine" questa distinzione non c’è più, ma c’è solo la vita nella sua essenza tragicomica. Stupisce la compattezza e la leggerezza di un film che, pur pessimista, non raggiunge le vette nichiliste di “Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni”. Il cast, come sempre, è composto da diversi “superlativi attori minori” (Sally Hawkins e il simpatico Bobby Cannavale)che brillano come le gemme di un diadema intorno al vero gioiello: una Cate Blanchett al massimo del suo splendore, forse mai così affascinante e intensa. Il tessuto intertestuale dell’opera è molto ricco. L’ambientazione ricorda subito il Golden Gate di “Vertigo” e la nostra Jasmine, a modo suo, è “una donna che visse due volte”. Il titolo stesso racchiude un’esplosione polisemica. Blue Jasmine è il gelsomino notturno di pascoliana memoria, un fiore raro e fragile (Allen ha una passione per i titoli floreali: pensiamo a “La rosa purpurea del Cairo”); ma blue è anche un aggettivo “emotivo” che indica la malinconia e connota la predilizione musicale del jazzista Woody Allen. Il maestro newyorchese farà pure sempre lo stesso film, ma la raffinatezza delle sue pellicole continua ad abbagliare i nostri occhi e sfiorare il nostro cuore.
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