giovedì 22 dicembre 2016 - Pensieri e parole da condividere
La spiegazione migliore della catastrofe del Movimento Cinque Stelle al Comune di Roma ce l’ha data quasi cent’anni fa il grande filosofo spagnolo José Ortega y Gasset.
«È un errore madornale», scriveva Ortega nel 1922, saltare dal fallimento di un’élite alla conclusione che si possa fare del tutto a meno di qualsiasi élite, in virtù magari di «teorie politiche e storiche che presentano come ideale una società esente di aristocrazia». «Poiché questo è positivamente impossibile», concludeva il filosofo, «la nazione accelera la sua parabola di decadenza».
L’ascesa del Movimento 5 stelle è il frutto della convinzione, condivisa da tanti nostri concittadini, che non una, ma almeno tre classi politiche abbiano fallito: i partitocrati, gli imprenditori e i tecnocrati. Si potrebbe discutere a lungo dell’entità di questi fallimenti, e ancor più di quanto equanimi siano stati gli italiani nel pronunciare il proprio verdetto. O quanto invece non abbiano sfogato nella condanna la propria insoddisfazione per una congiuntura storica della quale, in realtà, quelle classi politiche sono responsabili soltanto in parte. Equanime o iniquo che sia, a ogni modo, è evidente che un pezzo importante del Paese di quelle tre classi politiche non vuole più sentir parlare.
Miracolato da questo triplice fallimento, il Movimento non s’è preso la responsabilità di presentare all’Italia una nuova élite, ma ha proposto – appunto – «una società esente di aristocrazia». L’accelerare della «parabola di decadenza» della sventurata città di Roma, trovatasi non senza demeriti a far da cavia alla miracolosa panacea grillina, mette oggi in piena luce fino che punto questa medicina sia non soltanto inutile, ma dannosa.
I meccanismi di selezione «dal basso» del M5s, innanzitutto, a Roma hanno funzionato in maniera pessima: candidata grazie alle 1764 preferenze raccolte nelle primarie online (ma gli elettori romani sono più di due milioni), Virginia Raggi s’è dimostrata manifestamente inadeguata al ruolo. La sua manchevolezza è stata poi amplificata da quella d’un Movimento nel quale, a quel che sembra, le ambizioni in conflitto sono tanto abbondanti quanto scarsa è la fiducia reciproca. Caratteri questi che proprio il rifiuto di dotare il M5s d’una gerarchia interna stabile, chiara e trasparente non può che perpetuare – anzi, amplificare.
Da questa duplice inadeguatezza, dall’assenza di esperienza, dall’isolamento politico e sociale, è derivata l’incapacità dell’amministrazione capitolina perfino di mettere in piedi una squadra di governo, in sei mesi, fra dimissioni continue e interventi della magistratura. Mentre nel frattempo – poiché, come dice Ortega, vivere senza un’aristocrazia è impossibile – il Movimento che rifiuta le élite rimane sotto il ferreo controllo di un’oligarchia ristrettissima della cui compatibilità con un assetto democratico è lecito dubitare molto seriamente. Così che, in conclusione, la Capitale d’Italia è finita commissariata dal duo Grillo-Casaleggio.
Che lezione dovremmo trarre da tutto questo? Che la presenza di un’élite è condizione necessaria – ancorché non sufficiente – di un’azione politica e amministrativa minimamente sensata. E che un’élite non è un insieme casuale di persone più o meno competenti selezionate sul web o spulciando curricula, ma una creatura storica complessa e delicata, che per nascere e svilupparsi ha bisogno di tempo, risorse, regole, fiducia, valori e linguaggi condivisi. Un’élite assomiglia insomma parecchio a quella cosa detestabile che chiamiamo «casta»: non è facile distinguere l’una dall’altra, tanto gli aspetti positivi dell’élite e quelli negativi della casta sfumano gli uni negli altri.
Negli ultimi due decenni abbiamo gettato via il bambino con l’acqua sporca: per odio verso le caste, abbiamo distrutto le élite e i luoghi nei quali potevano formarsi. A tal punto che oggi non troveremmo un’élite politica neppure a volerla. Continuiamo così a chiedere risposte alla politica proprio mentre la priviamo degli strumenti per darcele. E ci affidiamo all’antipolitica, che di quegli strumenti s’illude di poter fare a meno. E perciò fallisce.
La Stampa, 22 dicembre 2016
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