venerdì 20 febbraio 2015 - Pensieri e parole da condividere
Se anche voi non sopportate chi in ufficio si dà la mission di proporre uno step che esalti il brand e individui una location dove briffare i competitor. Se anche voi, ogni volta che al telegiornale qualche politico affamato di poltrone denuncia problemi di governance, vi monta un tale prurito alle dita che avreste voglia di killarlo, ma vi limitate a schiacciare il tasto del telecomando come se fosse un ragno. Se anche voi pensate che quando qualcuno non sa cosa dire lo dice in inglese, specie se non sa neppure l’inglese, allora vi suggerisco di leggere e firmare la petizione all’Accademia della Crusca lanciata su «Internazionale» da Anna Maria Testa e rintracciabile ai seguenti indirizzi: Change.org e #dilloinitaliano.
Nell’aderirvi entusiasticamente col maestro e collega di corsivi Michele Serra di «Repubblica» si è pensato di allargare il campo di battaglia a un’altra e forse speculare deformazione del linguaggio. L’abuso di romanesco che ci viene inflitto ogni giorno in televisione, specie e purtroppo sui canali del servizio pubblico. Nelle fiction, come nei programmi di intrattenimento e di giornalismo, sembra diventato indispensabile ostentare una cadenza strascicata che della lingua immortale di Trilussa conserva soltanto la buccia, mentre la polpa è ridotta a uno sciatto e arrogante balbettio, spesso incomprensibile oltre la cerchia dei sette colli. L’invito a politici, attori e commentatori che vivono in quella splendida location è di compiere uno sforzo di umiltà a beneficio di noi provinciali. C’è di sicuro una parola italiana per dire location. Ma ce ne deve essere una persino per dire annamo.
La Stampa, 20 febbraio 2015
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